Come ben sappiamo, al giorno d’oggi, tutta la nostra vita si è digitalizzata e l’uso di internet è divenuto sempre più intenso. Se da un lato, la tecnologia ha sicuramente permesso di rendere tutto più veloce ed “a portata di un click”, dall’altro lato ci ha resi sempre più esposti e vulnerabili, ingenerando non pochi problemi fino al configurarsi di nuove fattispecie di reato, quali – per quel che rileva in questa sede – il
cyberstalking.
Nonostante non esista nel codice penale una vera e propria definizione di cyberstalking, con tale termine si identificano molestie ad una persona tramite l’utilizzo di dispositivi informatici come internet o posta elettronica. Ed invero, whatsapp e social si configurano sempre più come “arma” preferita negli atti persecutori da parte degli stalker: l’anonimato garantito da internet permette all’individuo di minacciare o molestare tramite comunicazioni elettroniche la vittima, superando qualsiasi scrupolo ed inibizione personale.
Per tale ragione, il legislatore è intervenuto sul tema con la Legge n.38/2009, poi parzialmente modificata dal D.L. 14 agosto 2013 n.93 (convertito con Legge 15 ottobre 2013 n. 119) modificando il secondo comma dell’art. 612 bis cod. pen., prevedendo la possibilità che la condotta di reato, rubricata “atti persecutori” possa essere commessa anche “attraverso strumenti informatici o telematici”.
Dettagliatamente, l’art. 612 bis cod. pen. classifica lo stalking come “reato abituale”, disponendo che “è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
E’ importante sottolineare che, con riferimento all’elemento della reiterazione, la Cassazione penale ha evidenziato quanto non sia necessaria una lunga sequenza di azioni delittuose, rilevando anche la presenza di pochi episodi di minaccia o violenza, purché gli stessi abbiano cagionato quanto suddetto.
Recentemente, con sentenza n. 28571/2020 è stato ribadito, ancora una volta, che la persecuzione online
integra il reato di atti persecutori. La Suprema Corte ha, altresì, precisato che – con riguardo alle esigenze
cautelari – non è necessario che il pericolo sia imminente, ma è sufficiente che esso sia altamente
probabile ed effettivo, tale da giustificare l’adozione delle misure cautelari stesse.
Nel dettaglio, il giudizio di pericolosità implica una doppia valutazione che si basa: sull’analisi delle modalità e circostanze del fatto (elemento oggettivo); sulla personalità dell’imputato/indagato, nonché su eventuali procedimenti penali o comportamenti o atti concreti indici di una sua propensione al crimine (elemento soggettivo).
Ancora, sul tema, è recentemente intervenuta anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ha stabilito – in osservanza agli artt. 3 e 8 CEDU disciplinanti, rispettivamente “divieto di trattamenti inumani e degradanti” e “diritto al rispetto della vita privata” – che “la cd. cyberviolenza deve essere considerata […
] a tutti gli effetti come violenza contro le donne e che, di conseguenza, le autorità nazionali non possono trattare episodi quali lo stalking via web, l’utilizzo abusivo degli account informatici di una donna da parte dell’ex marito o l’acquisizione di immagini e dati alla stregua di casi di violenza “comune”, ma devono prevedere l’applicazione delle regole più stringenti”.
Pertanto, sarebbe auspicabile che, visto il dilagare dell’uso dei social (anche da parte dei minori)
e visti i numerosi episodi che ogni giorno si verificano, il legislatore rivedesse la normativa del 2009,
adeguandola alla nuova realtà, prevedendo misure puntuali e severe per scoraggiare il
perfezionarsi del reato in parola.
Dott.ssa Silvia Sorci
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