La villa Serradifalco …nel ricordo di Fulco Santostefano duca di Verdura

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Il duca Lo Faso di Serradifalco nel  ‘700 ricava la villa trasformando una fattoria del ‘600. L’architetto
Domenico Lo Faso duca di Serradifalco agli inizi del 1800 ristruttura la villa, dandole un assetto neoclassico. L’ingresso principale ha un piccolo scalone a due braccia.

La facciata ha cinque balconi con inferriate a petto d’oca e le imposte sormontate da timpani. La facciata posteriore, invece, ha la porta d’ingresso a pianterreno perché il fabbricato è posto su una pendenza.
Poco distante dalla villa vi è una montagnola,dalla sommità della quale si scorgono le case di  Casteldaccia, Altavilla e Trabia. Su questa collinetta i Borboni a suo tempo impiantano un telegrafo a
bandiera che corrisponde col forte Castellammare a Palermo. All’inizio del ‘900 la villa la eredita
la famiglia del duca Fulco Santostefano della Cerda, duca di Verdura e marchese di Murata la Cerda.

Questi descrive la villa nel libro “Estati felici. Una infanzia in  Sicilia”, pubblicato dell’Editore Feltrinelli nei 1977. “La casa comprendeva grandi stanze quadrate, tutte più o meno della stessa grandezza.
Per una scala interna si arrivava ad una sala adorna di funerei ritratti di famiglia di casa Serradifalco.

Il salone, che era in realtà una biblioteca, vantava un camino, un candeliere, divani e sedie ricoperti di crine di cavallo nero e un tappeto. Il resto delle stanze monasticamente imbiancate erano ammobiliate con lo stretto necessario: letti, comodini con relativo vaso, armadi, sedie, una o due poltrone e scendiletto.

Le camere da bagno brillavano per la loro assenza e i cosiddetti W.C. erano due e appartenevano all’età della pietra. Lavarsi non era un problema perché le cameriere riempivano una tinozza e d’estate c’era una doccia esterna, ma affrontare i gabinetti, che tra l’altro erano immersi nelle tenebre, era un’altra cosa. Per me era più facile, perché c’era il giardino, o la campagna circostante, ma per la mia sorella era più complicato.

Non c’era luce elettrica e l’illuminazione era affidata, eccetto che nel salone, dove c’erano lumi a petrolio, all’acetilene, che si accendeva su certi tubi di metallo pendenti in ogni ambiente del centro delle volte.
La luce era vivacissima, bianca e accompagnata da un sommesso sibilo che naturalmente attirava ogni insetto alato dei dintorni.

Per fortuna le zanzare disdegnavano l’aridità del luogo roccioso. Da una parte della casa c’era un vasto cortile circondato dai fabbricati  bassi delle fattorie, perché  la proprietà comprendeva un oliveto, vigne e campi per i pascoli.”

Oggi la zona è recintata e comprende una casa per anziani istituita negli anni cinquanta da don Armando Trigona.

Articolo di Antonino Russo.

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