Le concubine del capitano Luca Arnone

Una sera il capitano Luca Arnone, dopo aver cenato, disse al cameriere che desiderava parlare con il gestore dell’osteria. Quando questi venne al suo tavolo, il capitano si complimentò, sia per l’impeccabile servizio che per l’ottima cucina.

Poi, con tono accattivante, gli fece una proposta: se gli avesse fatto un prezzo di favore, avrebbe cenato lì tutte le sere, ma con la facoltà di scegliere i piatti di suo maggiore gradimento.

Concluso l’accordo, il gestore volle sottolineare che, se avesse ordinato gamberoni o aragoste, il prezzo sarebbe rimasto quello del listino. Il capitano chiese di riservargli il tavolo in fondo alla sala, quello accostato alla parete, da dove avrebbe dominato tutto il locale. Così, tutte le sere, un vistoso biglietto troneggiava: «Riservato per il capitano Luca Arnone”.

Nel tempo, alcuni habitué, scoprendo la sua verve, sceglievano i tavoli accanto al suo. Ultimata la cena, il capitano, con uno stuzzicadenti fra le labbra, attendeva che qualcuno gli chiedesse di narrare una delle sue fantasiose e succulente storielle.

Egli, con un sorrisetto di compiacimento, rivolgeva lo sguardo verso il soffitto, come se stesse rovistando nella sua grande biblioteca della memoria e si predisponeva alla narrazione.

Ma era d’obbligo non interromperlo perché, avendo problemi di
memoria, avrebbe facilmente perso il filo e, allora, sarebbe stato
necessario che qualcuno gli rammentasse parte del racconto o il
punto in cui era stato interrotto.

Alcune sue storie erano ambientate in Somalia ed in Etiopia, dove
il capitano aveva combattuto con grande eroismo, al punto da essersi meritato una medaglia al valore. Fatto silenzio in quella parte del locale, il capitano iniziava a narrare.

Questa la prima delle sue storie. « A fine aprile del 1936 eravamo attendati in una zona desertica, in attesa di rinforzi dall’Italia, per l’attacco finale ad Addis Abeba. Appena giunsero le truppe fresche, abbiamo dovuto addestrarle alle esigenze e alle difficoltà che presentava il territorio. Una sera un giovane maggiore chiese di volermi parlare.

Si presentò nella mia tenda e dopo il saluto e dopo aver inneggiato al Duce, espose le sue richieste, che per me erano alquanto ridicole. Lamentò per prima cosa che nel campo mancassero le docce e i gabinetti. Gli risposi che avevamo penuria d’acqua e per i gabinetti si andava in aperta campagna. Con voce spaventata domandò: “E i serpenti? E i ragni?”

Io lo rassicurai: “Ma quali serpenti! Quali ragni! Da quando siamo qua non ne ho mai visto uno. A quel punto il maggiore, gridando, domandò: “E quel
coso attorcigliato al filo del lampione, che cos’è?”

Era veramente un serpente. Io con prontezza estrassi la pistola e sparai
al rettile, che cadde a terra assieme al lampione, spandendo intorno il petrolio. In un lampo la tenda prese fuoco e siamo scappati lasciando che si perdesse ogni cosa.»

In un’altra serata il capitano, a richiesta di alcuni avventori, narrò quest’altro episodio. «Un giorno fui chiamato da alcune donne etiopi, che vocianti si presentarono al comando italiano e a gesti mi fecero capire che un grosso leone era stato avvistato nei paraggi.

Cercai di rabbonirle assicurando che me ne sarei occupato personalmente. Ero infatti un veterano di caccia al leone, come dimostravano i numerosi trofei esposti nella mia stanza. Quindi caricai le pistole, controllai il fucile e insieme a due indigeni partii per dare la caccia al leone. Facemmo circa quattro chilometri, tra impervi sentieri, rocce e alti cespugli.

Ad un tratto avvistai l’animale. Era un bellissimo esemplare, un maschio, giovane e forte. I due indigeni, vedendolo, fuggirono spaventati, io mi avvicinai, aspettavo di essere certo di poterlo colpire a morte, poiché un
leone ferito è un vero pericolo.

Mi portai a circa cinquanta metri di distanza e mirai alla testa,
proprio al centro tra gli occhi.» Ma proprio in quel momento in trattoria squillò il telefono, il gestore sollevò la cornetta: «Si, pronto! Come? Volete al telefono il capitano? Ve lo passo subito. Capitano – gridò – la desiderano
al telefono».

Quando il capitano fece ritorno al tavolo, si sedette e con aria smarrita cominciò a passarsi una mano tra i capelli. Era evidente che non ricordava più l’argomento di cui stava narrando. Ma uno degli ascoltatori, che desiderava conoscere la conclusione della storia, gli chiese: “Capitano, com’è finita poi?” Egli esitò poi, con aria confusa, rispose: “Ci siamo abbracciati e baciati”.

“Con il leone?” chiesero stupiti gli astanti. E lui: “Quale leone? Io vi sto parlando della mia bella amante etiope.” Un’altra sera narrò: “Quando ero ad Addis Abeba, mi ero fatto un harem. Avevo tre concubine etiopi e la sera avevo il problema di metterle d’accordo su chi delle tre avrebbe passato la
notte con me. A quel tempo vivevo da nababbo.

Finita la guerra e tornato il Sicilia, non riuscivo ad adattarmi all’idea di vivere solo con una donna, dal momento che in Italia è vietata la poligamia. Ma ho raggirato l’ostacolo e così mi sono preso tre belle badanti: una thailandese, una brasiliana e una somala e tutto ciò alla faccia delle leggi italiane.»

In un tavolo vicino, due coppie di clienti che non conoscevano il capitano, scandalizzate dai suoi discorsi, chiamarono l’oste e in modo risentito domandarono: «Ma perché non lo fate zittire questo vecchio sporcaccione, con queste sue sconce storie?»

Gli altri presenti scoppiarono in fragorose risate, mentre l’oste spiegò ai nuovi clienti che di tutto ciò che raccontava il capitano, non c’era nulla di vero. «Il capitano – precisò ancora l’oste – vive solo. Le sue sono solo fantasie.

La sua pensione gli consente appena di sbarcare il lunario, altro
che tre badanti!”

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