Le luci della città e lo spettro di Bagheria L’outsourcing come opportunità

Abitare uno spazio, non vuol dire abitare un luogo. La configurazione spaziale che attiene alla disposizione degli insediamenti urbani non nasce nel vuoto. È frutto di fenomeni geografici, economici e sociali stratificati nel tempo, per mezzo delle azioni umane. Potremmo definire in tal modo la città come un atto di creazione di uno spazio, per mezzo di un insieme di individui che attraverso reti sociali e culturali, lo hanno riempito di significato.
Il concetto di confine, in latino limen, ha rappresentato non soltanto una difesa dello spazio inteso come territorio fisico misurabile, ma anche la costruzione di un’identità sociale, financo culturale, ovvero la creazione di un luogo.

Ciò implica che è possibile attraversare il limes, cioè passare da una strada de “l’impero” ad un’altra, attraversando la soglia, nella possibilità cioè di uscire e rientrare. Italo Calvino in “Le città invisibili” elegge la città di Ersilia come un luogo fatto di intrecci di fili che segnano relazioni di parentela, scambio, potere, rappresentanza.

C’è un aspetto interessante nel testo di Calvino – quando l’intreccio dei fili diventa enorme, gli abitanti vanno via, smontano le case, dunque abbandonano lo spazio e restano soltanto i fili e i sostegni dei fili. Ersilia viene smontata, smette di avere una dimensione geometrica, potremmo dire che non esiste più nello spazio, eppure ne restano i fili – che altro non sono che significazioni, ovvero no entità astratte ma sensate, poiché dotate di determinate caratteristiche che continuano a renderla riconoscibile. Oggi ripensare le città in tal senso è una scelta doverosa nel processo di ri-acquisizione di valore, al fine di programmare un futuro economico reale. Non sono certo da abolire le interazioni spaziali, che indicano la possibilità di movimento di popoli, dunque di idee, di progetti, di beni.

Il cosmopolitan homo economicus nella cultura dell’economia globale non è di certo un’antagonista alla culturale del Local. Tuttavia è necessario che ne rappresenti un’opportunità da cogliere, senza una diminuzione dell’identità.
Ripensare a un nuovo modo di raccontare le città, significa non soltanto creare uno storytelling nuovo, ma contribuire ad un processo di ri-acquisizione di valore, partendo dal passato, ovvero dal dna antropologico di quel luogo.

Diversamente ci si imbatte esclusivamente in tendenze estetiche piacevolissime, ma effimere. L’arredo urbano ha un’importante funzione comunicativa, specie in una socialità affascinata dagli estetismi e dalla preminenza dei valori formali.
Ad esempio, il restyling illuminotecnico dei monumenti in occasione di determinati eventi, come il Natale, ha in serbo un international trend, dietro uno studio della luce attento e interessante.

Vedere le piazze e le vie di Bagheria illuminate in questo Natale che chiude un anno gelido, suscita emozioni. Tuttavia se ciò è sganciato da un piano comunicativo, al di fuori di una vision inesistente o da un goal setting ballerino, rischia di lasciare in eredità esclusivamente emozioni instagrammabili ma effimere. Le valutazioni di efficienza economica risultano dunque doverose ed è una responsabilità politica. Qualsiasi stanziamento di risorse finanziarie è un buco nell’acqua, non di certo per l’evento in sé, quanto per le finalità che si intendono perseguire in un progetto più ampio.

La questione non è una mera speculazione filosofica, tutt’altro è sostanziale nelle programmazioni di sviluppo socio economico di un comune. Parlare di incremento dei flussi turistici al fine di generare ricchezza economica, non può esclusivamente basarsi sulla fruizione dei beni monumentali presenti in loco, specie quando questi sono di proprietà privata, o persistono in uno stato di degrado, come ad esempio le mura di cinta di Palazzo Cutò riverse in strada.

Tanto meno può essere demandata ad eventi spot slegati tra loro. Nel dire comune ci siamo abituati a sentire “con tutte le ricchezze che abbiamo, potremmo vivere di turismo”. Una visione strumentale del bene culturale, come se l’esistenza delle ville – non per nostro merito – dovesse generare valore in sé. È un retaggio culturale interessante sul concetto di proprietà, come una donna che tiene i gioielli in cassaforte senza mai indossarli.
Non di meno occorre lavorare di fino per rispolverare quei fili intrecciati e densi di significazione che Bagheria, in quanto luogo vissuto, possiede.
L’identità di un luogo è fatta di storia, di volti, di narrazioni, di culti, di tradizioni financo di spazi fisici e di azioni.
Riuscire a comunicare non in un approccio divulgatorio ma relazionale oggi è la più grande sfida.

Il costruire contenuti non può essere slegato da scelte economiche sostenibili ma occorre tener conto delle competenze specifiche – a questo punto – non per forza individuabili nel soggetto pubblico, che pongano in essere processi di valorizzazione dei beni patrimoniali e non patrimoniali, mediante anche la gestione di servizi integrati.

La provocazione è proprio questa: ripensare l’outsourcing come un’opportunità per ridare identità a Bagheria.

Tiziana Di Maria



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