Quando si andava dal fornaio di fiducia a preparare lo sfincione – Il Pungolo Pensiero

Nei nostri paesi il tempo di Natale, quando ancora non era influenzato dal luccichio delle vetrine e dal ritmo del consumismo, si proponeva non solo nella pienezza della sua valenza religiosa, ma soprattutto un’occasione, la più bella dell’anno, di incontro fra tradizione e storia, fra usanze radicate e significative e gioia di riproporle e riviverle nel loro fascino agreste. Così, in questo clima speciale, tutto il mese di dicembre, nell’attesa che lo contrassegnava, si dipingeva d’un colore particolare e d’una gioia spontanea ed immediata, che, forse, restituiva, ancora una volta, non soltanto ai bambini, ma anche agli adulti, la capacità di rappresentare, a sé stessi, il mondo e la vita, con quel tocco di sogno.

Il Natale veniva avvicinato dalle due novene di Avvento, quella dell’Immacolata e quella del Natale, che vedevano le chiese traboccanti di fedeli che potevano riscaldarsi stando vicini, ignari di ciò che sarebbe accaduto con l’esplosione del Covid – 19. Nelle famiglie venivano allestiti i presepi casalinghi con il muschio raccolto nei boschi delle Madonie e addobbati anche con le arance. La sera le case venivano visitate dallo zampognaro che suonava improbabili nenie natalizie che venivano cantate da cantori improvvisati e spesso anche stonati, ma nessuno ci faceva caso perché erano le parole importanti.
Nelle case della media borghesia compariva l’abete che veniva decorato con le palline di vetro, conservate e avvolte nella carta velina con cura dalle mamme l’anno prima.

Ogni giorno sembrava avere un rituale particolare, entro cui si esprimeva il ritmo del tempo dell’attesa, un ritmo che rendeva più breve il cammino ed avvicinava alla meta del Natale con i biglietti di auguri da spedire.
L’attesa del Natale era già tutta una festa, da godere lentamente, in tutte le sue sfumature, in un insieme di odori e di sapori, che annunciavano l’approssimarsi della festa più bella dell’anno. Era infatti, anche il trionfo della gola, con lo sfincione preparato nelle diverse versioni, al pomodoro, quello che si faceva a Palermo o bianco, quello di Bagheria che le massaie andavano a cuocerlo direttamente dal fornaio di fiducia dove preparato con cura e condito con cipolla, formaggio tuma e olio nuovo di frantoio. Il primo sfincione si mangiava in famiglia la vigilia dell’Immacolata e già dal primo pomeriggio l’aria era avvolta e intrisa del suo profumo. Anche i dolci venivano preparati in casa, dai buccellati ai biscotti. In certi casi c’era il panettone di Milano con l’uva passa che i bambini toglievano sempre prima di mangiarlo. Come era lontano ancora il pandoro di Verona o gli altri tipi di panettone al cioccolato, al pistacchio o alla crema chantilly.

Era veramente un clima speciale. Per tante famiglie, era il momento dell’incontro con i propri cari, con gli uomini, magari emigrati all’estero o al nord Italia, che rientravano per le festività. La sera del 24 dicembre, un religioso silenzio accompagnava il momento in cui ci si metteva a tavola e si si scambiavano gli auguri, si metteva la letterina sotto il piatto dei genitori, si parlava con tono sereno e pacato. Un senso di sacralità accompagnava la cena, quel senso di sacro che appartiene alla famiglia. Dopo la cena si giocava a tombola fino al suono della campana, che radunava tutti nella chiesa parrocchiale per la Messa di mezzanotte.

Il Natale, in fondo, non era una delle tante occasioni, non era una festa come tante, era la “Festa”, una ricorrenza che coinvolgeva, forse in modo diverso, tutta la famiglia. Non era una festa, che si presentava e si viveva al momento. Era una festa alla quale ci si preparava per tempo e che si attendeva per un anno.

Pino Grasso



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