Molto si è detto e raccontato su Malvagna. Parecchio si è scritto, forse in modo approssimativo, sui tempi andati, sui personaggi più o meno illustri che hanno caratterizzato la sua vita e che, nel bene e nel male, hanno lasciato la loro impronta in un passato più o meno recente. Attualmente, però, cosa ha da raccontarci questo paese? Lo scrittore Cesare Zavattini che sul finire degli anni Cinquanta ha già realizzato un esperimento analogo sul suo paese natio, con l’aiuto di Paul Strand e che, vent’anni dopo, il fotografo Berengo Gardin, a tal proposito, ebbe a dire: «più una cosa è prossima, più non la sappiamo.
Il vivere sembra sapere, l’essere sembra sapere e il proprio paese sembra una tale fragranza di essere, di vivere!» In questo reportage fotografico (ispirato al lavoro di Zavattini e Strand) ho cercato di cogliere l’essenza del vivere e dell’essere mavvagnotu e far conoscere i volti, (non tutti, perché non sarebbero bastate altre cento pagine) le piazze, le chiese e i vicoli, con la loro immensa solitudine, i silenzi assopiti e le profonde emozioni che riescono ancora ad evocare. Sfogliando le pagine farete la conoscenza di un paese che appartiene a quei comuni definiti a rischio scomparsa, comunemente sopranominati comuni in polvere. Eppure sono una parte integrante del nostro patrimonio storico e arti-stico, e insieme evidenziano una grande opportunità sprecata.
Gli scatti fotografici, proposti, descrivono un paese mezzo vivo e mezzo languente, sottolineandone la dolorosa presenza di quegli spazi un tempo pienamente vissuti. Spazi, in parte ora abbandonati, dove ho trascorso alcuni scampoli della mia infanzia allegra e spensierata fatte di corse all’aria aperta e di lunghe serate invernali trascorse intorno alla conca a sentire i cunti delle donne più anziane; storie incredibili, carichi di pathos, storie orribili di lupi mannari celati agli angoli delle strade, di spiriti e di fantàsimi che nel cuore della notte bussavano alle porte, di tetri lumini (stiàrichi) accesi, che mosse da mano invisibili, danzavano in cima alle ugghiate (lunghe aste di legno che i bovari usavano per governare il bestiame).
Malvagna mia, è il titolo che ho voluto dare al volume, ispirandomi al celeberrimo brano di Raoul Casadei, che, mezzi brilli, cantavamo a squarciagola le sere d’estate per le strade deserte, solo che al posto di “Romagna mia, Romagna in fiore”, intercalavamo con “Malvagna mia, Malvagna in fiore, Tu sei la stella, tu sei l’amore”.
Malvagna mia, è un fotolibro da custodire gelosamente come se fosse l’album della cresima o del matrimonio, con le foto più belle da mostrare agli amici quando ti vengono a trovare. Ma vuole essere anche un libro sulla memoria di quel tempo spazzato via dal vento della modernità senza aver lasciato alcuna traccia di quella che fu la civiltà contadina che da secoli e secoli segnò la vita di tanti centri montani sparsi per la Sicilia. Un fotolibro sobrio, privo di fronzoli, fatto solo di immagini, alcuni a colori, tutte le altre rigorosamente riprodotte in un accattivante e cronachistico b/n, utilizzato per ricondurre in modo migliore quello che fu il paese dei ricordi e delle struggenti nostalgie… Un paese che quando ogni quindici giorni ci tornavi, giunti in prossimità del casello di Mara mugghieri (cattiva moglie), appena si intravedevano le primissime case sullo sfondo, mio figlio ancora piccolo, parafrasando il motivo di un celebre motivo dei “Tazenda”, cantava a squarciagola: “Spunta Malvagna dal monte… Spunta Malvagna dal monte…”.
Il paese che appena lo nomini ti fa venire un groppo in gola, il paese dove sono sbocciati i tuoi primi amori. Momenti storici fissati per sempre nella memoria, come storici sono i ricordi dei giochi all’aria aperta, le cruente battaglie a colpi di nòzzura di frummenturiniu , le partite a spaccapanoggiu e i dolorosi “pugni presi e mai resi…”. E poi ancora gli anni turbolenti della gioventù, vissuti in fretta, troppo in fretta per goderteli appieno, divisi tra la parrocchia e la “Camera” del Partito Comunista. Divisi tra l’eterna lotta esistenziale tra il sacro e il profano, il bene e il male, fortemente avvertita in quegli anni violenti. Anni incerti, intensi, contrassegnati da risvolti a volte drammatici.
Anni in cui, infieriva il terrorismo. Anni di grandi contraddizioni e dalle passioni travolgenti. Anni in cui, nonostante tutto, incoscientemente fondai la “Compagnia degli Out”, una sbrindellata e chiassosa brigata teatrale dove assieme a Carlo, mio fratello, ai miei cugini Franco Russotti e l’indimenticabile Pippinu Furnari, i mitici fratelli Bongiovanni, Enza Buemi, Gerardo Currenti, Pina Panascì, le sorelle Brancato, Mariarosa Caggegi, Melo Pezzino, Pippinu (bureddu) Mobilia, Enzo Mobilia, Cettina Mantineo e altri ancora, portammo in giro per mezza valle Alcantara opere come La Giara di Pirandello, rigorosamente tradotta in mavvagnotu; L’uomo dal fiore in bocca, sempre del grande autore agrigentino ed infine, l’indimenticabile Tossicomania, due atti unici contro l’eroina, allestito prima a Malvagna e poi in una fredda mattinata di gennaio in due esaltanti rappresentazioni dinanzi ad una foltissima scolaresca proveniente da tutte le scuole di Randazzo e dopo, messo in scena in quel di Linguaglossa. E poi? Poi, venne la dannata necessità di mollare tutto, la-sciare i tuoi cari, le tue radici per fuggire a Milano, Torino, o chi come me, a Messina. Fuggire lontano pi buscarìsi – come si diceva allora – un mmossu ‘i pani. Ricordo che allora, a parte la necessità stringente di lavorare, fui spinto ad andarmene dalla paura stessa.
Mi dominava l’angoscia di quella gabbia che si stringeva su di me, ogni giorno più stretta. Avevo paura di sprecare in quel posto fermo nel tempo, la mia vita, di spegnermi lentamente, senza poter dire la mia, senza… Paura di svegliarmi ogni giorno senza sorridere, di diventare vecchio senza aver esplorato il mondo. Avevo la paura folle di arrivare all’ultimo dei miei giorni, guardarmi indietro, e rimpiangere tutto quello che avrei potuto fare ma che non avevo fatto. E così, lasciai i miei cari, mia madre, mio fratello, gli amici per immergermi nella realtà di una città sconosciuta che non mi appartiene, tutto preso dal suo tran tran quotidiano, la dura vita da sopporta-re, il matrimonio, il lavoro, i figli da crescere. Tutto diventa così opaco, abitudinario. “Passano gli anni e non te ne accorgi che sei invecchiato. Passano gli anni e non ti rendi conto che manchi dal tuo amato-odiato paese da più di quarant’anni: Come passa il tempo?”
I cinque anni vissuti a Malvagna in qualità di vicesindaco e assessore alla cultura, mi condussero alla ri-conoscenza di quei luoghi tanto amati e mai dimenticati. Avvenne quasi per caso che mi ritrovai a ripercorrere mille volte le strade del mio paese a contemplare gli aspetti più caratteristici dei luoghi della mia fanciullezza da anni non più frequentati.
Come ha scritto Cesare Zavattini, questa conoscenza significa: “Poterci usare in modo più redditizio dovunque ci si trovi, stabilire dei collegamenti spaziali e temporali nuovi anche stando fermi… mettere in moto il processo delle corre-lazioni tra quello che succede sotto i nostri occhi e dentro di noi e lontano da noi. Il campo operativo è un paese qualsiasi. Potrebbe essere una metropoli o un quartiere”.
Io ho voluto narrare di Malvagna. E sebbene questo ha richiesto per me impegno, denaro, fatica e soprattutto una certa dose di coraggio, sicuramente è stato un ossequioso tentativo di rimpossessarmi di quel passato crudelmente annientato.
Adesso, alla scadenza del mio mandato di amministratore, a sipario abbassato, posso tranquillamente affermare con nobiltà d’animo che questa mia fatica fotografica oltre a essere un tributo alla memoria, è anche un atto d’amore nei confronti di una comunità che nei cinque anni di permanenza mi ha lasciato dentro qualcosa. Il mio è: un voler donare (più di quanto abbia realizzato, o potuto realizzare) in qualità di assessore, a ogni singolo concittadino, negli anni vis-suti a Malvagna con il mio bagaglio di esperienze piacevoli e spiacevoli, ma certamente unici, quello che è mio, augurandomi che diventi di tutti. Non si vive solo per ricevere, ma anche per dare. L’eterna storia del… Do ut des! rivisitata e corretta.
José Russotti
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