Trabia è un paesello di mare vicino Palermo, famoso per gli spaghetti, la pesca dei tonni e le nespole. Qui ci hanno sempre abitato gli Schiera, conosciuti con la ‘nciuria, o che italianizzar si voglia soprannome, di Senzatarì. Lavoratori, fondamentalmente onesti, anche se un po’ pazzigni e di malocarattere.
Sembra che questa linea debba mantenersi per sempre, quando a metà degli anni 70’, Antonino, l’ultimo dei Senzatarì, esce completamente fuori razza. Talmente disgraziato, talmente scalognato, talmente senza né arte né parte da fare rivoltare nella tomba suo nonno Peppino e suo padre Rosario.
Perennemente senza lavoro e combinato come uno scappato di casa, Antonino, campa alla giornata un colpo qua e colpo là. Non possiede niente, se non una bella moglie, il figlioletto Filippo e una casa scarrupata ereditata dai nonni, di cui però manco può dirsi padrone perché invasa da quella cosa vecchia della signora suocera e dai i cognati, uno meglio dell’altro, che mangiano e bevono a sbafo.
L’unica anima pia a cui fa pena è Mastro Ercole, il puparo del paese, che ogni tanto gli regala una carta da 10.000 lire e gli racconta sempre storie sulla Merica, che ad Antonino pare così lontana che nemmeno esiste. Proprio nel momento più nero della sua vita, quando l’ultima soluzione sembra essere quella di prendere la rincorsa e partire di testa contro l’unico chiodo sano che è rimasto nelle pareti di casa, accade un evento che gli cambierà la vita per sempre. Il problema è che tra il dire e il fare assai ce ne passa…
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Può il racconto di una vita di amarezze e sfortune varie far sorridere, anzi ridere a crepapelle?
Di “inetti”, incapaci di vivere e destinati al fallimento è piena la letteratura, ma certamente, per l’origine siciliana dell’autore, viene spontaneo pensare al Mattia Pascal di Pirandello.
Anche lui, come Antonino Schiera, vive insieme alla suocera, che non sopporta; anche lui è imprigionato in quella “forma”, maschera, affibbiatagli dalla società e che nei paesi si concretizza nella “‘nciuria”; anche lui sogna di cambiar vita, identità, addirittura paese, che, dati i tempi, quale poteva essere se non l’America…? Ma, mentre Mattia fallisce in tutto e per tutto: resta senza famiglia e senza nessuna identità, Antonino Schiera alla fine , quando fallisce pure nel tentativo di suicidarsi, capovolge completamente la sua nomea: diventa un eroe…suo malgrado… E per di più “ritrova” la sua famiglia, felice come agli inizi del matrimonio.
Ritorna alla mente quell'”ideale dell’ostrica” e quella “religione della famiglia” che rappresentano il “sugo” della storia de “I Malavoglia” (anche questa una ‘nciuria).
Tanti i personaggi che animano il paese di Trabia: ognuno è se stesso e nello stesso tempo allude ad altro. Il puparo Mastro Ercole, sincero amico del protagonista, è depositario della cultura popolare. Don Cristò è custode del cimitero e insieme portavoce di una saggezza antica, fatta di buonsenso. Per quale motivo è tornato dall’America, benché avesse fatto fortuna? Perché “la Merica è ovunque. La Merica siamo noi..”. A differenza degli americani che “sono vivi pure quando sono morti…noi siamo morti, ancora prima ri nasciri”. Sembra di sentire il dialogo tra il Gattopardo e l’esponente del governo sabaudo: “il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono”.
Lo stile dell’autore è asciutto e conciso come il dialetto siciliano di cui il lessico è infarcito, attraverso l’uso di frasi idiomatiche e termini dialettali per così dire italianizzati, che avvicinano l’autore più che al Verga, la cui sicilianità è data dalla sintassi, ad Andrea Camilleri.
Un consiglio: leggere a piccole dosi il romanzo, se non si vuole fare la fine di Margutte: morire dalle risate…