La chiave di decifrazione dell’enigma, dell’incubo espresso dalla villa dei mostri si può trovare nella cappella che fu inserita tra la schiera dei corpi bassi, adibiti a locali della servitù, che circondavano ed isolavano la dimora nobiliare dei Palagonia.
Il visitatore che oggi si reca a questa villa, però non deve illudersi, ossia non deve credere di venir a visitare l’antica dimora di Ferdinando Francesco Gravina II, ma quella che fu del fratellastro Salvatore e Cottone, che per ereditare in successione al Gravina il titolo di Principe di Palagonia ed i possedimenti che tale titolo accompagnavano sposò nel 1786 a soli 12 anni 1786 la figlia di questi, Maria Provvidenza Gravina.
Al fratellastro Salvatore e ai successivi eredi di Villa Palagonia si devono pertanto successivamente alla morte nel 1789 del nostro Principe “folle” il sistematico smantellamento dell’ornamentazione bizzarra di sopradetta villa.
Si pensi all’abbattimento di circa 600 mostri, molto più orribili di quelli superstiti, che erano disposti sulle balaustrate del lungo viale di ingresso che conduceva alla dimora nobiliare dei Palagonia. A questo spirito di devastazione “barbarica” si deve pure anche la rimozione dell’eccessivo arredo sacro della cappella di Ferdinando Franceso Gravina II, che per fortuna possiamo ricostruire solo attraverso le testimonianze che ne fecero i viaggiatori stranieri che al tempo del nostro Principe di Palagonia ebbero modo di visitarla.
Da questa loro visita sia il conte De Borch sia Goethe dedussero che “la follia” del Principe lì trovava la sua eziologia, ossia la sua spiegazione. Ma la loro era una spiegazione solo per la loro mentalità illuminista di massoni, che del sacro e di Dio avevano una concezione razionalista che veniva ad esempio a qualificare quest’ultimo come il Grande Architetto dell’Universo. Una concezione dunque religiosa avulsa da tutti quegli aspetti che da questi massoni venivano definiti irrazionali e in netto contrasto con l’emergente mentalità moderna.
Ma cosa era contenuto all’interno di questa cappella tanto da sconcertare questa loro mentalità, che certo si era sbarazzata di tutto quanto riguardava i misteri religiosi e la fede?
Diamo qui subito la parola al De Borch che ce la descrive ornata con tutto ciò che il gusto insieme religioso e strambo del principe è riuscito ad inventare. Scrive il conte nel suo libro “Lettere sulla Sicilia e sull’Isola di Malta”: << Tralascio tutte le statuette di santi e sante, gli ex voto, i rosari, i flagelli, i cilici, gli scapolari, i reliquari, gli agnus Dei, le acquasantiere, gli aspersori e tutti o sacri arredi che ornano la cappella, per fermarmi su tre oggetti principali.
Nella sacrestia vi è un busto di una donna rappresentato con tutti i fronzoli della più raffinata eleganza, e nello stesso tempo uno sciame di insetti, scorpioni, scolopendre, vermi, tarme e altri che le rodono il viso e il seno; il busto è assai ben fatto, sono soprattutto verisimili gli insetti. Nella stessa sacrestia sono appese matasse di corde che, si dice, servono al principe per legare coloro che vengono a flagellarsi con lui, i quali sovente non hanno la forza di sopportare le staffilate che egli religiosamente infligge loro; ma credo sia un aneddoto inventato… Quel che è proprio vero è che il principe, quando volle collocare un lampadario al centro della cappella, trovando che la forma di quelli che si usano di solito in simili ambienti non si adattava al resto della decorazione, fece dipingere sulla volta un crocifisso, dall’ombelico di Gesù Cristo esce un uncino a cui è appeso per il collo un San Francesco penitente, di cui i piedi e le mani servono come braccia per illuminare la cappella. >>
A questa descrizione che dell’edificio religioso viene fatta dal De Borch, corrisponde quasi perfettamente in tutto quella di Goethe, che pertanto qui ci risparmiamo di riportare.
L’aneddoto inventato di cui ci riferisce il nostro conte, a parer nostro, potrebbe invece corrispondere al vero perché qui il vero è dato dal forte sentimento religioso del nostro Principe che lo esternava sia in sacrestia che all’interno della sua cappella. L’idea di un principe che pertanto ferrato da una austera fede religiosa venisse a compiere atti di mortificazione del suo e dell’altrui corpo includente quello dei suoi stessi servi peccatori, a noi infatti non sembra del tutto peregrina soprattutto se messa in relazione con l’esasperato arredamento della chiesuola. In questo arredamento in cui il grande poeta tedesco intravide l’espressione dell’inestinguibile e devota pietà del proprietario villa non poté non trovare pure << la chiave di tutta la sua mania, che non poteva attecchire fino a tal punto se non nella psiche di un superstizioso.>> Per Goethe il nostro Principe di Palagonia era un folle e le sue follie si spiegavano per il fatto che egli era un superstizioso. Queste follie in parole povere venivano intese come l’espressione della più oscura superstizione, dalla quale l’anima del nostro Principe sarebbe stata affetta in quanto da essa invasata, succube.
Questa diagnosi psicologica di Ferdinando Francesco Gravina fatta da Goethe, mostra tutti i limiti che dal nuovo modo di pensare illuminista vengono imputati alla religione soprattutto nei suoi aspetti più devozionali che sfociano spesso nella mistica. Ora è proprio della mistica che l’età dei lumi e della ragione vuol fare a meno e nel fare questo qualificare come matti, come folli tutti coloro che anima e corpo a essa si danno col procurarsi così quegli stati eccezionali di sensibilità visionaria, che soprattutto nel Gravina hanno avuto gli esiti più eclatanti. Ma questo misticismo esasperato del Palagonia ha una sua ragione solo se lo si inserisce nel contesto del tempo in cui i De Borch, i Goethe ma anche il nostro Ferdinando Francesco Gravina si trovano a vivere. Questo contesto è quello in cui la Filosofia dei Lumi, che faceva a meno di Dio, avendolo sostituito con un’altra divinità, la Dea Ragione, aveva fatto presa preparando un’altra epoca, quella moderna in cui anche noi tuttora viviamo.
Questa filosofia era dunque in gran parte atea nel propugnare idee che alla fede sostituivano i dettati della ragione e che pertanto veniva ad annunciare un nuovo evangelo del tutto laico, che al nostro Principe di Palagonia non poteva essere congeniale, in quanto di formazione rigorosamente cattolica in lui indotta ereditariamente e nelle forme più tradizionali dalla sua antica famiglia. Così accade che innanzi a idee atee che vengono a minacciare la sua fede il Gravina per non soccombere a queste minacce non ha altro mezzo, altra arma che quella della fede stessa, che lo porta ad esasperare i suoi aspetti devozionali innanzi a un Dio, che solo può salvarlo dalla catastrofe del mondo in cui fino ad allora aveva vissuto.
Catastrofe che un cambiamento epocale gli prospettava come la fine del mondo, ma che in realtà avrebbe comportato la fine del suo mondo, del mondo degli aristocratici in mezzo ai quali viveva, del mondo in parole povere dell’Ancien Regime che i nuovi tempi rivoluzionari avrebbero travolto. La cappella del Palagonia con il suo esasperato arredamento sacro non era dunque una normale cappella, ma un edificio fortemente magico-religioso proprio di un ambiente in cui atti di espiazione ed intense preghiere potessero propiziare un più tangibile intervento divino finalizzato a contrastare i pericoli per il Principe che le idee dei nuovi maîtres à penser avrebbero ben presto comportato nella loro realizzazione, che difatti portò all’ avvento di quel capolavoro diabolico, che fu secondo pensatori tradizionalisti come De Maistre, la Rivoluzione Francese, a cui non si poteva non imputare l’accusa più tremenda, quella della morte di Dio in un suo rappresentante in terra di Francia che fu Luigi XVI.
L’edificio magico-religioso del Palagonia non fu dunque essere capito nel suo tempo, nel tempo in cui era di moda sostituire alla fede la ragione in base alla quale lo si considerò un capolavoro della superstizione.
Ma questo capolavoro non doveva avere una vita lunga e facile. Dopo la morte del Gravina ben presto ci si sbarazzò dell’esasperato arredamento religioso all’interno dell’edificio sacro, di cui non si salvò proprio nulla tanto che l’esistenza di esso noi l’apprendiamo fortunatamente solo dalle descrizioni che ne fecero i viaggiatori stranieri di quel tempo nei loro libri di viaggio in Sicilia, e che per noi costituiscono l’unica documentazione importante che non invalida affatto la figura del nostro Principe di Palagonia vista attraverso gli aspetti più devozionali della sua fede.
Montana Pietro
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