(nella foto il primo a sinistra), il partigiano che il 29 giugno 1944 salvò oltre 200 ostaggi alla Chiassa (AR) e ben quattro centri abitati, tra cui Anghiari. Il Giugno 1944 fu un mese di stragi e sangue per la provincia di Arezzo. Repubblichini e tedeschi si resero protagonisti di numerosi ed efferati episodi di violenza, culminati con fucilazioni, impiccagioni, stupri, massacri. Tutto faceva propendere per un’altra gravissima strage, con oltre 200 ostaggi fucilati e ben quattro centri abitati incendiati e distrutti: Anghiari, Montauto, La Chiassa Superiore e Borgo a Giovi. Tutto era nato dal sequestro del colonnello Maximilian von Gablenz e del sottufficiale suo aiutante, ad opera della famigerata “Banda del Russo” il 26 giugno, sulla via della Libia. Il Comando tedesco di Arezzo aveva messo in atto un vasto rastrellamento, segregando alcune centinaia di ostaggi nella chiesa della Chiassa Superiore. Poi aveva pubblicato un bando, che concedeva 48 ore ai partigiani per riconsegnare i due militari tedeschi, altrimenti gli ostaggi sarebbero stati fucilati e i quattro centri abitati distrutti. Già erano state collocate mine alla base delle mura di Anghiari e del locale Palazzo comunale. Purtroppo, il Comandante della Brigata Garibaldina “Pio Borri”, Capitano Siro Rosseti, era impotente in quanto la Banda del Russo non obbediva ai suoi ordini e minacciava di morte i partigiani di altre bande che entravano nel suo territorio, tra le montagne di Anghiari e quelle di Arezzo. Poi, la svolta. Rosseti mandò il Tenente partigiano Gianni Mineo al comando tedesco della Chiassa, poche ora avanti la scadenza dell’ultimatum. Mineo, originario di Bagheria, era militare ad Arezzo e dopo l’8 Settembre 1943 era scappato dalla caserma e in seguito aveva dato vita ad un reparto partigiano, il Gruppo X, di cui facevano parte una quindicina di ex militari, tra cui un altro bagherese, Rosario Montedoro. Gianni Mineo trattò col comandante tedesco, che lo accompagnò al Comando di Arezzo. Gianni Mineo riuscì a farsi concedere altre 24 ore e partì alla ricerca del Russo. Discusssioni, trattative, alla fine il Russo consegnò a Gianni Mineo il Colonnello von Gablenz e il suo aiutante. Iniziò quindi la lunga marcia, da Montemercole dove era al momento la Banda del Russo, verso la Chiassa. I due tedeschi erano accompagnati da Gianni Mineo e da due partigiani del Russo, Giuseppe Rosadi e Bruno Zanchi. Purtroppo, il colonnello camminava a fatica, sia per la non più giovane età e sia per i postumi di una grave ferita della guerra presedente. Si paventava una tardiva riconsegna dei due tedeschi al loro comando, con conseguente inizio della rappresaglia. Ecco allora che von Gablenz scrisse su un biglietto un ordine che fermava la rappresaglia e lo consegnò a Mineo. Questo partì con un cavallo verso la Chiassa, ma il cavallo nel percorso perse un ferro e si azzoppò. Gianni proseguì la corsa a piedi e quando era poco sopra la Chiassa, sentì gli ordini secchi che facevano intuire i preparativi per la strage. Iniziò ad urlare, i tedeschi si fermarono, lui arrivò alla chiesa, mostrò il biglietto del colonnello dicendo che stava per arrivare, sano e salvo. E poco tempo dopo, von Gablenz e il suo aiutante arrivarono nella piazza della chiesa, scortati da Giuseppe Rosadi, conosciuto come Beppe del Barba. Lo Zanchi si era fermato poco prima ed era tornato verso Montemercole. Il Rosadi, pur rischiando la vita, aveva proseguito, anche perché tra quegli ostaggi c’era pure la sua fidanzata. L’arrivo del colonnello permise il rilascio degli ostaggi. E qualcuno si attaccò alle campane della chiesa, suonandole a festa, mentre i poveretti, che si sentivano dei “miracolati”, scappavano. Senza Gianni Mineo e Giuseppe Rosadi, il 29 giugno saremmo a ricordare un’altra terribile strage. E non avremmo più la splendida Anghiari, come la vediamo oggi. Ecco perché è giusto ricordare questi due giovani partigiani. Ecco perché, dopo l’intitolazione di un Parco pubblico alla Chiassa e la collocazione di una lapide a ricordo di fronte alla chiesa in cui furono segregati gli ostaggi, il Sindaco di Arezzo, Alessandro Ghinelli, e il Presidente della Provincia, Roberto Vasai, nel 2016 hanno inoltrato al Ministro della Difesa una domanda per il conferimento di una onorificenza alla Memoria dei due umili eroi, che solo dopo pazienti ricerche sono riaffiorati da un troppo lungo, ingiustificato e ingrato oblio. Spero che anche le Amministrazioni comunali di Bagheria e di Santa Flavia, dove Gianni Mineo nacque, alla fine ricordino questo loro Figlio.
Categoria: Società
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Un concorso fotografico dell’associazione “Scattando Baarìa”
L’associazione culturale “Scattando Baaria” che aderisce all’associazione nazionale “Scattando Italia”, ha organizzato una mostra fotografica dal titolo “vista da noi”. Il tema della mostra è il territorio di Bagheria e dintorni visto con l’occhio del fotografo, amatoriale e non, in ogni sua sfaccettatura,dalla passeggiata allo street, dai lavori di una volta agli usi e costumi delle nuove generazioni. Per partecipare si possono inserire 3 scatti nell’album dell’associazione sulla pagina face book. Il concorso è aperto a tutti. Si potranno inserire foto fatte con qualsiasi apparecchio: reflex, fotocamera compatte, smarphone. Verranno accettate foto fatte esclusivamente nel territorio di Bagheria e dintorni, che si estende per i paesi marinari della provincia ad est di Palermo, da Ficarazzi a Termini Imerese. Si potrà partecipare al concorso fino al 31 marzo. Al termine della data stabilita una commissione composta da addetti ai lavori e non, vaglierà le foto e sceglierà quelle che verranno esposte all’interno di una mostra che si svolgerà a villa Aragona Cutò nel mese di maggio 2017. Sarà prevista una premiazione per le 3 migliori foto partecipanti, scelte da un’apposita commissione giudicatrice e una pergamena per tutti i partecipanti.
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Morto il professore Nino Buttitta
, antropologo, docente universitario e politico del Partito socialista. Era nato a Bagheria il 27 maggio del 1933. E’ stato ideatore della fondazione dedicata al padre, il poeta Ignazio Buttitta. E’ stato professore emerito dell’Università di Palermo, dove è stato docente e preside della Facoltà di Lettere e Filosofia (dal 1979 al 1992), nonché presidente dei corsi di laurea in Beni demo-etno-antropologici e alla magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia.
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L’oro della conca d’oro
In passato la grande piana era piuttosto brulla, tranne alcune piccole oasi dove c’erano delle sorgenti. Fra i primi a cercare l’acqua con razionalità furono gli arabi. Imbrigliarono le acque del fiume Oreto e del Kemonia, scavarono pozzi e cunicoli di scolo e grazie alla loro ingegnosa tecnica delle senie, estraevano l’acqua accumulandola nelle gebbie (vasche) per averne un flusso continuo. Le senie rimasero in funzione fino a tutto il XIX secolo, con alcune innovazioni. Nel XIV secolo venne edificato l’acquedotto Santelia, per utilizzare l’acqua del fiume Eleuterio. Il manufatto permise di irrigare un vasto territorio fra Ficarazzi e Bagheria. A metà del XIX secolo si cominciò a piantumare limoni, che nella zona trovarono un ambiente particolarmente favorevole, con un prodotto d’eccellenza esportato anche all’estero. Con l’avvento delle pompe a gas e a vapore, i pozzi diventarono miniere d’oro. I proprietari dei pozzi ne ricavarono grossi profitti e anche potere. Si piantumarono limoneti in vaste zone rialzate perché con le pompe si poteva spingere l’acqua sempre più in alto. Ma l’acqua non era mai sufficiente. Così negli anni ’50-’60 si scavarono nuovi pozzi. Alcuni personaggi, che considero emblematici, spinti dalla frenesia di possedere pozzi, si tuffarono alla ricerca di luoghi dove trivellare, non tenendo conto di nessun equilibrio geologico. Uno trivellò in una zona ritenuta non adatta, nel pendio di un’alta collina. A circa 25 metri di profondità, intercettò una piccola vena d’acqua. Non contento, proseguì a trivellare e, a 60 metri circa, centrò una grande falda. Ancora più grande fu la sua gioia quando l’acqua venne analizzata. Risultò infatti ottima e contadini proprietari di limoneti festeggiarono l’evento. Finalmente avrebbero avuto l’acqua nel momento della ruspigghiata (risveglio). Ma dopo avere irrigato, alcune piante seccarono. Si scopri così che quando il pozzo veniva sfruttato intensamente, si infiltrava anche acqua salmastra. Quando i contadini si rifiutarono di comprare quell’acqua, il proprietario del pozzo non si arrese e disse: “La mia acqua non la volete? Ma io ve la farò bere!” Il personaggio, infatti, tramite suoi agganci politici, riuscì a far immettere la sua acqua salmastra nella rete idrica della città. Sfruttando il bisogno che si era venuto a creare in città a seguito dell’espansione edilizia, anche se a malincuore, quell’acqua venne accettata. Il risultato fu che, dopo alcuni anni, le tubature si corrosero, si incrostarono ed intasarono. Per non parlare degli elettrodomestici. In più la gente fu costretta a bere acqua minerale… Fra i personaggi che si sono distinti fra gli scavatori di pozzi, uno andò oltre i limiti della ragione. Questo personaggio ingaggiò un rabdomante e con questo si diede alla perlustrazione del territorio, anche là dove nessuno si era mai sognato di cercare. Il rabdomante lo condusse in cima ad una collina. Lassù venne colto da forti brividi per il sentore di una grande falda acquifera. La sua bacchetta cominciò a ondeggiare, quasi volesse sfuggirgli di mano. Fece un segno in terra e con voce tremante disse: “A circa 25 metri di profondità c’è tanta acqua da poter irrigare tutta la piana del territorio.” Il committente, a quella frase, andò in delirio: già si vedeva padrone del pozzo, da dove sgorgava oro. Data la posizione, che i mezzi meccanici potevano difficilmente raggiungere, iniziò a scavare con mezzi tradizionali nella viva roccia. Quando iniziarono i lavori, una processione di curiosi cominciò a visitare il posto e a burlarsi dell’ardita iniziativa di scavare proprio in cima al monte. I lavori si protrassero per oltre un anno. Si superarono i 40 metri di profondità, ma di acqua nessuna traccia. Di tanto in tanto qualche buontempone si inventava di aver visto un fiume scorrere dalla montagna e ci si rideva con gusto. Ad un certo punto il pozzo venne abbandonato, ma il nostro personaggio non si diede per vinto e collezionò altri fallimenti. A quel punto decise di cambiare rabdomante. Ne importò uno dalla Puglia, di grande fama. Questi, veterano di tanti successi, gli assicurò di non aver mai sgarrato un colpo. Quella volta spostarono le ricerche sul pendio di un monte vicino la costa. Il Mago dell’acqua, dopo una mezza giornata di girovagare, piantò un bastone per terra e disse: “Io sono disposto a giocarmi la testa! A 40 metri di profondità c’è una falda d’acqua immensa.” E infatti, alla profondità prevista, venne fuori un mare d’acqua, di mare… Addirittura ci fu qualcuno che si inventò che, insieme all’acqua, dal pozzo venissero fuori anche sardine. Con quell’ennesima delusione, il nostro personaggio pose fine al suo sogno e con lui si chiuse un capitolo dell’epopea degli scavatori di pozzi. Nel frattempo, anche grazie alle politiche dissennate ed alle frodi, arrivò la crisi del limone e il suo deprezzamento. Ciò portò nel tempo i contadini ad abbandonare i limoneti. Oggi di acqua per irrigare ce n’è in abbondanza, specialmente con la conduttura dell’invaso di Rosamarina. Nei tempi andati, a gestire le acque erano i guardiani dell’acqua, personaggi assai singolari. Uno di questi, che considero emblematico, guardiano dell’acqua e intermediario delle acque irrigue tra i proprietari dei pozzi e i piccoli coltivatori, ve lo voglio presentare.. Durante i mesi estivi, il guardiano dell’acqua diventava potentissimo, poco meno che il padreterno… Infatti, la produzione dei verdelli dipendeva da lui. Tra maggio e agosto si appropriava di una parte della piazza più importante del paese, eleggendola a ufficio privato. S ‘imponeva al centro di una ruota di uomini, tutti dall’espressione paziente e remissiva, in attesa che venisse loro assegnata la “zappa d’acqua”. Il guardiano, un tipo corpulento, dal volto legnoso e inespressivo, portava un berretto calcato sulla fronte. Di tanto in tanto bisbigliava un nome, prendeva appunti su un quaderno bisunto dalla co pertina nera. Nome e soprannome, il giorno e l’ora in cui il contadino avrebbe usufruito dell’acqua. Fra un appunto e l’altro, con gesti lentissimi, si frugava nelle tasche alla ricerca delle sigarette. Ne tirava una, la batteva leggermente sul pacchetto e la portava all’estremo lato delle labbra. Ritornava a frugarsi, mentre i contadini facevano a gara ad apprestargli il fiammifero acceso. Lui accendeva e con aria di sufficienza sparava boccate in faccia ai presenti. In uno di quei pomeriggi, dei rumori, come brontolii in lontananza, attrassero la curiosità dei presenti: «Tuona?» chiese un contadino, con espressione incredula. Era impensabile che a fine luglio potesse piovere. I limoneti erano a secco, era già tempo della «ruspigghiata». Dal lato mare cominciarono ad arrivare nuvoloni nerissimi. Lievi soffi di vento fresco diffondevano sentore d’acqua. In pochi minuti il cielo fu percorso da saette, seguite da scoppi fragorosi. Arrivarono i primi goccioloni. Un attimo di incertezza e alla spicciolata i contadini corsero a ripararsi sotto un androne. Il guardiano, sbalordito, si guardava intorno, come un generale che si senta abbandonato dai suoi uomini davanti al nemico. Stizzito, con le vene del collo gonfie, lanciava imprecazioni contro il cielo. Sapeva che se quella pioggia fosse caduta per qualche ora, la sua stagione si sarebbe conclusa lì. E con quell’acqua si sarebbe sciolto anche il suo potere. Tutto inzuppato girava intorno alla piazza come un toro nell’arena. Poi corse anche lui a ripararsi nell’androne, mentre l’acqua scendeva a fiumi. I contadini incitavano il temporale, come se fosse un cavallo in corsa avviato al traguardo, mentre i lampi ed i tuoni erano il coronamento della festa. Il guardiano osservava tutta quell’acqua che allagava la strada e si mordeva le labbra. Poi con scatti felini estrasse le sigarette e a colpo sicuro ne portò una alle labbra. Tornò a frugarsi in cerca dell’accendino, che non trovò, ma questa volta nessuno si curò di farlo accendere. La «ruspigghiata» dei limoneti si fa verso la fine di luglio; si lasciano le piante a secco, fino a che si accartocciano le foglie. Dopo un’abbondante concimata, si dà la «vicenna» ossia acqua in abbon danza. Ciò provoca una seconda primavera. La zagara che sboccerà sarà il verdello della prossima estate.
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“Il bambino di vetro” in concorso ai David di Donatello
Sicilia Film Commission “Il bambino di Vetro” di Federico Cruciani , che vede tra gli sceneggiatori il bagherese , che si assegneranno nel marzo del prossimo anno Il Bambino di Vetro” è stato l’esordio dietro la macchina da presa del regista teatrale Federico Cruciani. Il film, tratto dal romanzo “Figlio di Vetro” di , che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura, è uscito nelle sale lo scorso mese di aprile. Palermo, giorni nostri. Vincenzo Vetro lavora al mercato ittico della città, è sposato con Maria e ha un figlio di dieci anni, Giovanni. Spesso Giovanni accompagna il padre nei suoi giri di consegne e la loro vita sembra scorrere normalmente. La tensione in casa, però, diventa sempre più opprimente soprattutto perché Maria non riesce più a tollerare le attività illecite del marito. Vincenzo, infatti, non è un semplice pescatore ma un corriere della droga che nasconde nelle casse del pesce. Quando Giovanni scopre che il padre è coinvolto in una cosca mafiosa, il suo mondo va in pezzi e un segreto, tenuto celato fino ad allora, viene a galla. “Il Bambino di Vetro” è stato presentato, unico italiano, tra i film in concorso nella sezione parallela ed indipendente della Festa del Cinema di Roma 2015, chiamata Alice in Città. Il cast della pellicola è composto da Paolo Briguglia (Vincenzo), Vincenzo Ragusa, Chiara Muscato, Vincenzo Albanese