Marco, seduto sotto il nespolo, si godeva la frescura dopo una giornata di caldo afoso. Alzò gli occhi a scrutare l’alone giallastro che circondava la luna e parlando a se stesso si disse: “anche domani il caldo ci frusterà.” Fece una doccia, dirigendo il fresco getto dritto in fronte, come se ciò potesse cancellare anche i grigi pensieri che affollavano la sua mente. Si asciugò con gesti meccanici ed iniziò a vestirsi senza badare a ciò che metteva addosso. Decise di uscire domandandosi dove avrebbe potuto passare la serata: in paese, dopo le 20:00 se ne stanno tutti appiccicati davanti al televisore e da quell’ora per strada girano solo i cani randagi. L’unico posto dove andare era il villaggio vacanze, anche perché in quel periodo c’era sempre il pienone di turisti francesi. Entrato nella hall il portiere di notte lo salutò: “Signor Marco, che piacere rivederla: dove si è nascosto in questi ultimi tempi?” “Beato lei che può permettersi di girare il mondo. Io invece sono sempre inchiodato a questo banco”. Dopo le battute col portiere, si diresse verso il viale che conduce all’anfiteatro dove si tengono gli spettacoli di intrattenimento. L’odore del rosmarino che fiancheggiava il viale lo inebriò. Dal vocio che arrivava intuì quale skeck era in scena in quel momento: da oltre 40 anni il repertorio non era mai cambiato. Salì le scale verso la terrazza per osservare senza esser notato. Era una serata splendida. Il suo sguardo competente valutò che c’erano tante anime in cerca di consolazione. Al bancone del bar la solita ressa: volti luccicanti di molti strati di creme onoravano Bacco. Terminato lo spettacolo gli animatori annunciarono che si dava il via alle danze. Numerose coppie smaniose di svago si diressero verso la pista. Di solito si iniziava con il liscio per dare spazio anche a coppie attempate. Dopo cinque pezzi si cambiava musica, la pista si riempiva di giovani stracarichi di energia. Come per incanto Marco, nel suo appartato osservatorio, si sentì leggero, una piuma svolazzante che si aggirava fra i tavoli. Le ragazze sembravano quelle di sempre: Denise, Beatrix, Véronique, Monique, Angèle, Chantal, Anne, Françoise. Sorridenti lo invitavano. Marco si passò più volte le mani sul volto. Tornato in sé, scese le scale, girò attorno allo spiazzale evitando così di farsi vedere dal personale del bar: se i camerieri lo avessero visto, lo avrebbero assillato di domande. Erano passati tre anni dall’ultima volta che era stato al villaggio. Aveva abbandonato il campo. “Finite le vacche grasse, le magre Ormai il playboy era diventato una macchietta, una figura patetica, che non poche ragazze di ora irridevano. Prese posto sui gradini all’estremo bordo della gradinata, accanto ad un gruppo di austriaci che fra un sorso e l’altra di vino raccontavano grasse barzellette. In un angolo semibuio due ragazze sedute ad un tavolo si guardavano intorno con aria annoiata. Le risate degli austriaci non le digerivano. Incuriosito, Marco si mise a fissarle. Una era la classica francesina dal volto paffutello con due graziose fossette sulle guance. L’altra, bruna con i capelli lisci, portava un paio di occhiali dalla montatura stravagante che le davano un’aria da maestrina. Era chiaro che in quell’ambiente si sentivano sprecate. La prima vestiva uno scamiciato bianco che faceva risaltare la sua pelle, mentre l’altra vestiva un completino che la faceva assomigliare ad una bambola degli anni trenta. Nello studiarle inconsciamente egli le inseriva nel suo grande casellario che si era costruito nel corso di quasi vent’anni di carriera. “E queste dove potrei inserirle?” si domandò. Forse fra le bambolone estroverse, giocherellone, che ti fanno sudare cento camicie e poi al momento clou tirano fuori loro problemi? Non certo fra le ‘intellettualesse’ che stanno sempre appoggiate al bancone del bar e ti parlano per ore di archeologia e di architettura. E poi nel più bello ti piantano perché cascano dal sonno. O tra le sportive, tutte tennis e vela, che non trovano un attimo libero. Sempre in gonnellino e fascia in testa. Il loro obiettivo è vincere le patacche che gli animatori preparano per i vari tornei. E loro le esibiscono come se si trattasse di medaglie olimpioniche. Queste te le fai solo se le batti nei loro sport. Neanche fra le borghesuccie che si credono sempre a delle sfilate di alta moda e mettono in bella mostra i vestiti griffati. Neanche fra le pazzerellone sguaiate che ti fanno perdere quel poco di contegno che cerchi di ostentare. Forse andrebbero incasellate fra le ibride. Sono le più difficili e credo che vadano inserite fra queste ultime. Marco era attratto dal volto della brunetta. Qualcosa di lei lo incuriosiva. Il suo sguardo si insinuava nella sua memoria. Decise di abbozzare un approccio. Convenne che erano preda difficile per il suo arco. Ma proprio il timore di un fiasco lo spinse a tentare. In quel momento le ragazze si diressero verso la pista. Il DJ si sbizzarriva nel proporre una serie di shake violenti. Marco si alzò e si avviò anche lui, così, tanto per osservare. Ma senza accorgersene si trovò in mezzo ai ballerini. Terminato lo shake le ragazze fecero ritorno al tavolo. Marco le seguì e con una scusa: “Siete parigine?” “Si ma abitiamo nella grande banlieue.” “Mi chiamo Marco, vi posso offrire una bibita fresca?” “Grazie, molto gentile. Dopo il ballo ci vuole”. Fece arrivare tre aranciate con le cannucce. Le ragazze iniziarono con una battuta: “Sei simpatico, ma hai l’aria di un traguer”. La brunetta terminò la frase ridendo. “Beh! lo sono stato, ma non spaventatevi ormai sono in disarmo.” Hélène esordì con una frase provocatoria: “Ma dove sono finiti i giovanotti siciliani tutto fuoco? I grandi conquistatori dei cuori delle francesi?” Marco schivò la steccata e sorridendo rispose. “Beh, credo che siate arrivate in Sicilia con un ventennio di ritardo. Ormai le ragazze siciliane si sono fatte furbe… I giovanotti non hanno alcun motivo di venire a consolare le francesine al villaggio.” “E tu?” chiese Irene, la brunetta. “Io sono l’ultimo superstite. Un play boy in quiescenza”. E sorridendo si lisciò i baffetti. “Sentite ho un’idea, vi voglio invitare a prendere un bel gelato a Bagheria, dove lo fanno in cento diversi gusti.” Le ragazze accettarono con entusiasmo, si alzarono e si diressero verso il parcheggio. La proposta di un bel gelato era sempre stata, per Marco, la sua carta vincente. Mai nessuna si era rifiutata a tale invito. Trovarono la gelateria affollata d a giovani coppiette. Presero posto ad un tavolo al margine dello spiazzale. Quando arrivò il cameriere con la lista dei gelati, Marco si esibì a grande conoscitore del gelato, decantandone le qualità tipiche locali. Alla fine decisero di ordinare un gelato dai diversi gusti. I complimenti furono tanti, le ragazze ripetevano che mai si erano sognate di trovare in Sicilia del gelato così buono. Poi, Marco sfoderò il suo grande repertorio di barzellette e storielle sui siciliani e sui francesi, lungamente collaudati. A quel punto Irene disse: “Mia mamma negli anni ‘70 è stata in vacanza in un villaggio che si chiamava Zagarella. Mi ha raccontato che è stata la più bella vacanza della sua vita. E lì ha conosciuto un ragazzo meraviglioso, che non ha più dimenticato.” Marco, l’ascoltava incuriosito. “Tua mamma è venuta allo Zagarella negli anni ‘70? Come si chiama la tua mamma?” “Si chiama Laure, ecco, ho qui con me la sua foto”. Irene cominciò a rovistare nella borsetta, tirò fuori un fodero, ne estrasse alcune foto e le porse a Marco. Lui osservò la ragazza e le foto massaggiandosi di continuo la fronte. Poi si alzò di scatto e abbracciò la ragazza. “Ecco, ecco, perché il tuo volto non mi è nuovo? E’ tutta la sera che mi chiedo a chi somigliassi! Io sono certo di aver conosciuto tua mamma e tu ne sei la copia perfetta. E sono anche sicuro che il ragazzo di cui parla tua madre sono proprio io. Allora lei mi diede il suo indirizzo, che poi ho smarrito. E tuo padre? Non hai con te una foto di tuo padre?” La ragazza arrossì e come se inciampasse nelle parole. “Mio padre non l’ho mai conosciuto. Mia mamma mi ha cresciuta da sola.
Categoria: I Racconti di Carlo Puleo
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Una indimenticabile estate a Pantelleria
Per una settimana Lino si era dedicato a ripulire e sistemare le tre stanzette più servizi. I locali erano arredati senza alcuna coerenza stilistica, di sicuro i mobili erano stati rastrellati presso i rigattieri di Palermo. Il dammuso godeva di uno splendido ed ampio cortile, con barbecue e vista a ventaglio sul mare. Lino si era portato solo il necessario, oltre una valigia di libri, che aveva disposto su alcune mensole. Durante quei giorni raramente era andato in paese, anche se distava non più di ottocento metri. Passava le serate a leggere e a osservare il cielo che mai aveva visto così nitido e splendente… Quella sera se ne stette a casa perché tirava un fastidioso vento di scirocco. Si sdraiò sul divano con le mani dietro la testa a fissare il soffitto a cupola e si domandava se la decisione di trasferirsi a Pantelleria fosse stata sensata. E pensare che proprio lui aveva sempre criticato quelli che lasciavano la città per rifugiarsi in campagna. A quella scelta era giunto dopo il fallimento dell’impresa in cui aveva lavorato per quindici anni come contabile. L’ultimo anno era stato messo in mobilità e a tutto ciò si era aggiunta la rottura della convivenza con Elisabetta. Alfonso, un suo vecchio amico, vedendolo giù di corda, gli aveva proposto di trascorrere una settimana con lui a Pantelleria, dove possedeva un dammuso. Lino era rimasto affascinato dal luogo, al punto da chiedere se quel locale potesse essergli ceduto in affitto per tutta l’estate. Per spostarsi nell’isola aveva trovato nel dammuso una bici, una di quelle da montagna, che era la passione di Alfonso. Quando non tirava vento se ne andava in giro per i campi. I panteschi non mostravano alcuna curiosità nei suoi confronti: Lino li salutava e loro rispondeva con un lieve cenno del capo. Alfonso gli aveva detto che se un pantesco ti regala dei capperi significa che vuole allacciare amicizia. Allora bisogna mostrare tutta la gratitudine con strette di mano e abbracci, come se ti avessero donato dei diamanti. I panteschi giudicano i non isolani degli sciuponi in genere, ma soprattutto riguardo l’acqua, cosa assolutamente preziosa per loro e che vedono sprecare in modo per loro quasi offensivo. Grazie al suo girare per l’isola, aveva riscoperto la funzione dell’olfatto e dell’udito: adesso percepiva anche i minimi fruscii e gli odori più tenui. Ciò che più lo meravigliava era constatare come gli abitanti dell’isola avessero piegato la natura alle loro esigenze. Gli ulivi crescevano raso terra legati a grosse pietre, così anche le viti; gli alberi da frutta erano piantati dentro alte mura a cerchio per essere riparati dal vento salato, un ingegnoso sistema raccoglieva le acque piovane dai tetti a cupola. Ogni centimetro del territorio era stato plasmato dal sudore dell’uomo. Un giorno, di ritorno dal suo girovagare, Lino notò un camioncino dei traslochi parcheggiato accanto al suo dammuso. Erano arrivati i proprietari dell’abitazione vicina. Entrò in casa e mentre era intento a prepararsi il pranzo sentì il rimbombare di un pallone che sbatteva sul muretto di confine. Si affacciò e notò un bambino di circa sette anni che calciava. Rientrò, chiuse la porta e disse fra sé: ”Addio quiete”. Di solito, dopo pranzo, aveva preso l’abitudine di fare una breve pennichella, ma quella volta preferì andare in paese. Quando rientrò notò una donna anziana seduta davanti l’uscio. Questa, appena lo vide si avvicinò al muretto di confine e, dopo averlo salutato, gli chiese se c’era anche don Alfonso. Egli rispose che lui era affittuario e viveva da solo. Il ragazzino continuava a calciare. A quel punto uscì una ragazza e invitò a rientrare perché la cena era pronta. Quando si accorse di Lino lo salutò e si scusò di avere interrotto la conversazione con la signora. La mattina dopo Lino si alzò più tardi. Mentre si preparava la colazione, sentì le donne gridare, si affacciò e vide che il ragazzino era salito sui tetti, sicuramente attraverso un muro che poggiava al dammuso. Le donne lo supplicavano di scendere. A quel punto la ragazza, con voce piagnucolante, supplicò Lino di aiutarla, timorosa che il bambino decidesse di saltare giù. Egli fece cenno alle donne di tacere, poi si inerpicò sul tetto, si avvicinò al piccolo che cercava di sfuggire alla presa, ma lui riuscì ad afferrarlo per le braccia e a porgerlo alla ragazza che stava ad attendere con le mani alzate. Le donne non finivano di ringraziare, scusandosi per il fastidio arrecato. Dopo qualche giorno, Lino, di ritorno dal paese, dove aveva cenato, notò la ragazza seduta sul muretto di confine. Lei lo salutò e porgendogli la mano si presentò: “Mi chiamo Silvana. Mi dispiace tanto per il disturbo dell’altro giorno, purtroppo Tonino in questi ultimi tempi è molto irrequieto perché gli manca l’affetto dei genitori, che si sono divisi alcuni mesi fa. Poveretta, la nonna non sta molto bene. Tre mesi fa è stata colpita da un’ischemia e solo pian piano si sta riprendendo. Il figlio della signora avrebbe dovuto venire anche lei in vacanza, ma è stato trattenuto da impegni di lavoro.” Mentre raccontava, Silvana rivolgeva gli occhi verso il mare, poi, come se avesse trovato coraggio, si girò dalla parte di Lino e lei poté notare il suo sguardo magnetico. Lei, accortasi del suo turbamento, abbassò ancora lo sguardo e riprese a parlare. “La sera non so che fare. Il ragazzino, dopo una giornata di correre e giocare, è sfinito e crolla. Anche la signora, subito dopo cena, si mette a letto. Mi farebbe la cortesia di prestarmi qualche libro? Ho visto che lei ama la lettura.” Lino rispose: “E’ la mia passione. Che genere preferisce? – chiese –. Se vuole, può sceglierlo lei stessa.” Le porse la mano e la aiuto a scavalcare il basso muretto, aprì la porta e aggiunse: “Scusi il disordine di un uomo che vive solo. Ecco, là ci sono i libri.” Lei si accostò alla mensola e alzandosi sulle punte dei piedi passò in rassegna i volumi. Lino, osservandola dietro le sue spalle, poté osservarne il corpo, che era ben modellato , e la massa di capelli lunghi ondulati che mandavano riflessi color rame. Silvana estrasse due volumi: “Il ponte dell’ammiragli o” di Lucio Zinna e “Gli zii di Sicilia” di Leonardo Sciascia e girandosi disse: “Per adesso prendo questi.” Lino la invitò a sedersi e, aprendo una lattina, le porse un bicchiere di aranciata, mentre lei continuava a evitare lo sguardo insistente di lui, leggendo nel frattempo le quarte di copertina. Era cosciente del magnetismo che emanavano i suoi occhi, lo aveva scoperto fin da ragazzina. Poi, come se si fosse liberata da un impaccio, disse: “Io non sono un a badante professionista, ma ho dovuto adeguarmi. Oltre alla signora devo badare al ragazzino, che mi impegna tanto.” Si alzò e, cambiando improvvisamente tono: “Ti ho fatto perdere tempo, forse devi ancora cenare.” “Ho già cenato in paese” rispose lui. A quel punto lei si alzò e si avviò verso la porta, lui la seguì e l’accompagnò fino al muretto. Tornato in casa, Lino si rese conto di essersi comportato come un ragazzino, per non aver dato alcun seguito al “tu” che la ragazza gli aveva confidenzialmente rivolto. La mattina dopo si svegliò con il rumore delle pallonate di Tonino e quando uscì di casa salutò il ragazzino e gli disse: “Tonino, io ho fatto il portiere in una grande squadra.” Tonino lo fissò sorridendo e mise in mostra la finestrella di un dente mancante. Poi Lino aggiunse: “Mi metto in porta, vediamo se riesci a farmi gol”. Mise due pietre a mo’ di porta e si piazzò in centro. Tonino prese la rincorsa e calciò. Lino finse di non pararlo e il ragazzino esultò di gioia. In quel momento uscirono le due donne e lo trovarono nelle vesti di portiere, mentre il ragazzino continuava a calciare e guardò con fierezza la nonna. Dopo qualche sera Lino, rincasando, notò Silvana seduta dietro il solito muretto, con i libri in mano: “Li ho bevuti come due bicchieri d’acqua”. Lui la invitò a scegliere altri volumi. Lei si diresse verso la mensola e rimise i libri al loro posto. Si spostò dove erano i libri di poesia, mentre Lino la osservava cercando di intuire quali fossero i suoi interessi. Scelse un volume di Salvatore Quasimodo e uno di Ignazio Buttitta. Poi lei, girandosi con i libri in mano, precisò che amava i libri degli autori siciliani. Lino sentì dentro di sé un impulso irresistibile, si avvicinò alla ragazza, l’abbracciò e la baciò. Lei, per nulla sorpresa, rispose al bacio. Poi Lino la invitò a sedersi e stappò una delle bottiglie di passito che aveva comprato da un contadino. Nessuno dei due accennava a ciò che era successo, come se non fosse accaduto a loro. Lei, guardando le copertine dei libri, raccontò: “Provengo da un paesino a pochi chilometri da Caltanissetta, ho scelto questo lavoro per fuggire da una realtà che mi opprimeva. Ero fidanzata con un uomo che mi vietava anche di respirare, se mi ribellavo mi minacciava e una volta mi ha pure schiaffeggiato in pubblico. In seguito ho saputo che frequentava gente malfamata e che era dedito alle droghe, così ho deciso di lasciarlo. I miei genitori sono tradizionalisti e non volevano che io rompessi il fidanzamento anche per timore che lui potesse rapirmi o diffamarmi. Un giorno, a seguito di un’ inserzione su un giornale, mi sono presentata e sono stata assunta da questa famiglia come badante, ma vivo sempre con il timore che il mio ex fidanzato mi venga a cercare. Voglio liberarmi da quest’incubo. Spero entro un anno di lasciare questo lavoro e trasferirmi al nord o addirittura all’estero.” Lino la ascoltava senza interromperla e le prese la mano. Mentre lei narrava, egli aveva l’impressione di conoscere quella storia, per avergliela come letta nel volto. Lei si alzò dicendo: “Spero di non averti annoiato con le mie chiacchiere” e fece per avviarsi verso la porta. Al suo esitare lui l’abbracciò e lei lo strinse a sé.
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Le concubine del capitano Luca Arnone
, dopo aver cenato, disse al cameriere che desiderava parlare con il gestore dell’osteria. Quando questi venne al suo tavolo, il capitano si complimentò, sia per l’impeccabile servizio che per l’ottima cucina. Poi, con tono accattivante, gli fece una proposta: se gli avesse fatto un prezzo di favore, avrebbe cenato lì tutte le sere, ma con la facoltà di scegliere i piatti di suo maggiore gradimento. Concluso l’accordo, il gestore volle sottolineare che, se avesse ordinato gamberoni o aragoste, il prezzo sarebbe rimasto quello del listino. Il capitano chiese di riservargli il tavolo in fondo alla sala, quello accostato alla parete, da dove avrebbe dominato tutto il locale. Così, tutte le sere, un vistoso biglietto troneggiava: «Riservato per il capitano Luca Arnone”. Nel tempo, alcuni habitué, scoprendo la sua verve, sceglievano i tavoli accanto al suo. Ultimata la cena, il capitano, con uno stuzzicadenti fra le labbra, attendeva che qualcuno gli chiedesse di narrare una delle sue fantasiose e succulente storielle. Egli, con un sorrisetto di compiacimento, rivolgeva lo sguardo verso il soffitto, come se stesse rovistando nella sua grande biblioteca della memoria e si predisponeva alla narrazione. Ma era d’obbligo non interromperlo perché, avendo problemi di memoria, avrebbe facilmente perso il filo e, allora, sarebbe stato necessario che qualcuno gli rammentasse parte del racconto o il punto in cui era stato interrotto. Alcune sue storie erano ambientate in Somalia ed in Etiopia, dove il capitano aveva combattuto con grande eroismo, al punto da essersi meritato una medaglia al valore. Fatto silenzio in quella parte del locale, il capitano iniziava a narrare. Questa la prima delle sue storie. « A fine aprile del 1936 eravamo attendati in una zona desertica, in attesa di rinforzi dall’Italia, per l’attacco finale ad Addis Abeba. Appena giunsero le truppe fresche, abbiamo dovuto addestrarle alle esigenze e alle difficoltà che presentava il territorio. Una sera un giovane maggiore chiese di volermi parlare. Si presentò nella mia tenda e dopo il saluto e dopo aver inneggiato al Duce, espose le sue richieste, che per me erano alquanto ridicole. Lamentò per prima cosa che nel campo mancassero le docce e i gabinetti. Gli risposi che avevamo penuria d’acqua e per i gabinetti si andava in aperta campagna. Con voce spaventata domandò: “E i serpenti? E i ragni?” Io lo rassicurai: “Ma quali serpenti! Quali ragni! Da quando siamo qua non ne ho mai visto uno. A quel punto il maggiore, gridando, domandò: “E quel coso attorcigliato al filo del lampione, che cos’è?” Era veramente un serpente. Io con prontezza estrassi la pistola e sparai al rettile, che cadde a terra assieme al lampione, spandendo intorno il petrolio. In un lampo la tenda prese fuoco e siamo scappati lasciando che si perdesse ogni cosa.» In un’altra serata il capitano, a richiesta di alcuni avventori, narrò quest’altro episodio. «Un giorno fui chiamato da alcune donne etiopi, che vocianti si presentarono al comando italiano e a gesti mi fecero capire che un grosso leone era stato avvistato nei paraggi. Cercai di rabbonirle assicurando che me ne sarei occupato personalmente. Ero infatti un veterano di caccia al leone, come dimostravano i numerosi trofei esposti nella mia stanza. Quindi caricai le pistole, controllai il fucile e insieme a due indigeni partii per dare la caccia al leone. Facemmo circa quattro chilometri, tra impervi sentieri, rocce e alti cespugli. Ad un tratto avvistai l’animale. Era un bellissimo esemplare, un maschio, giovane e forte. I due indigeni, vedendolo, fuggirono spaventati, io mi avvicinai, aspettavo di essere certo di poterlo colpire a morte, poiché un leone ferito è un vero pericolo. Mi portai a circa cinquanta metri di distanza e mirai alla testa, proprio al centro tra gli occhi.» Ma proprio in quel momento in trattoria squillò il telefono, il gestore sollevò la cornetta: «Si, pronto! Come? Volete al telefono il capitano? Ve lo passo subito. Capitano – gridò – la desiderano Quando il capitano fece ritorno al tavolo, si sedette e con aria smarrita cominciò a passarsi una mano tra i capelli. Era evidente che non ricordava più l’argomento di cui stava narrando. Ma uno degli ascoltatori, che desiderava conoscere la conclusione della storia, gli chiese: “Capitano, com’è finita poi?” Egli esitò poi, con aria confusa, rispose: “Ci siamo abbracciati e baciati”. “Con il leone?” chiesero stupiti gli astanti. E lui: “Quale leone? Io vi sto parlando della mia bella amante etiope.” Un’altra sera narrò: “Quando ero ad Addis Abeba, mi ero fatto un harem. Avevo tre concubine etiopi e la sera avevo il problema di metterle d’accordo su chi delle tre avrebbe passato la notte con me. A quel tempo vivevo da nababbo. Finita la guerra e tornato il Sicilia, non riuscivo ad adattarmi all’idea di vivere solo con una donna, dal momento che in Italia è vietata la poligamia. Ma ho raggirato l’ostacolo e così mi sono preso tre belle badanti: una thailandese, una brasiliana e una somala e tutto ciò alla faccia delle leggi italiane.» In un tavolo vicino, due coppie di clienti che non conoscevano il capitano, scandalizzate dai suoi discorsi, chiamarono l’oste e in modo risentito domandarono: «Ma perché non lo fate zittire questo vecchio sporcaccione, con queste sue sconce storie?» Gli altri presenti scoppiarono in fragorose risate, mentre l’oste spiegò ai nuovi clienti che di tutto ciò che raccontava il capitano, non c’era nulla di vero. «Il capitano – precisò ancora l’oste – vive solo. Le sue sono solo fantasie. La sua pensione gli consente appena di sbarcare il lunario, altro
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La marchesa di Acquachiara
A quel tempo ero preso dalla passione per il restauro, ma disponendo di pochi mezzi, frequentavo il mercatino delle pulci, al Papireto. Alla fine degli anni Cinquanta e parte degli anni Sessanta vi si trovavano oggetti interessanti e a prezzi modici. Cercavo in particolare vecchie tele e vecchie cornici, di solito scartate dai compratori perché necessitavano di un elaborato e costoso restauro. Ciò spingeva i venditori a cederle per poco. Con molta pazienza e maestria, nel mio tempo libero, le risuscitavo; non era difficile, poi, trovare acquirenti e patiti dell’antiquariato. Nel tempo, feci amicizia con gran parte dei frequentatori del Papireto e con tutti i gestori. Molto spesso incontravo una vecchietta vestita in maniera antiquata, arzilla e taciturna, che si aggirava con fare frenetico. Sceglieva di tutto, anche gli oggetti più strani, era chiaro che non avesse alcun progetto, lasciandosi piuttosto guidare dall’estro del momento o dall’emotività. Arzilla e sgusciante saltellava da un punto all’altro dell’ampio salone Vecchi lumi, orologi di ogni foggia, ceramiche, mobili e perfino scatoloni ripieni di vecchie foto. Con i frequentatori ci chiedevamo cosa se ne facesse di tutti quegli oggetti. Non dava confidenza a nessuno e non ci degnava neanche di uno sguardo. Dopo aver pagato, faceva segno a un anziano tassista che, con aria paziente, attendeva all’altro lato della strada. Questi, poi, caricava tutto, apriva lo sportello dell’auto e la aiutava a salire. Un giorno, mosso dalla curiosità, chiesi al rigattiere chi fosse questa cliente, verso la quale usavano molto riguardo. Questi, con espressione meravigliata, rispose: «Ma come, non la conosce? Questa signora è una nobile, è marchesa.» Chiesi come si chiamasse, ma lui non si ricordava, si affacciò alla porta e domandò al collega dirimpettaio: «Totò, come si chiama ’a marchisa?» E l’altro: «Come, non lo sai? Si chiama Acquachiara ». «La marchesa di Acquachiara si onora di invitare la S.V. alla mostra di beneficenza, che avrà luogo a palazzo d’Acchito, il 21 marzo alle ore 19,00». Gli ampi locali accolsero una folla della buona società locale. L’età della maggior parte del pubblico oscillava sui sessanta. Baciamani e inchini si sprecavano. La marchesa vestiva un soprabito di merletto scuro, un cappellino piumato anni trenta, al collo una doppia fila di perle forse coltivate. Arzilla e sgusciante, saltellava da un punto all’altro dell’ampio salone. Minuta, un fascio di nervi, scattante come una molla. Occhi azzurri e penetranti. Sembrava un direttore d’orchestra, per tutti aveva un sorriso, una parola.Negli ultimi tempi la si incontrava dappertutto, conosceva tutti quelli che avevano fatto grana e a farli sganciare lei era maestra. Era contesa da antiquari, trafficoni e avventurieri, che in lei trovavano una spalla validissima. Bastava che dicessero ai loro clienti: «Questo pezzo proviene da casa Acquachiara» che il miracolo era compiuto. Anche un’ignobile crosta o l’oggetto più scialbo acquistavano un alone di leggenda. La marchesa era l’ultima discendente di una nobilissima famiglia siciliana. I suoi antenati si erano distinti fra i crociati più intraprendenti, ma nell’ultimo secolo il patrimonio di famiglia si era disintegrato e gli ultimi spiccioli i suoi antenati li avevano buttati fra casini e casinò. Un fratello da un decennio vegetava in una casa di riposo: era stato rinchiuso e ben sorvegliato, dopo un’ennesima strage di automobili in un crocevia del centro. Quando lo assaliva il raptus, inveiva con il suo bastone sulle auto in transito. Si fermava al centro e gridava come un ossesso: «Qui non passa nessuno! Sono il marchese di Acquachiara.» E giù colpi sui para brezza. Più di una volta, grazie alla prontezza dei vigili, era stato salvato da furiosi pestaggi.
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La marchesa di Acquachiara
Agli Acquachiara non era rimasto nulla dell’immenso patrimonio, gli ultimi rimasugli se li erano sbranati gli avvocati che da oltre mezzo secolo portavano avanti cause su terreni e proprietà in possesso di ecclesiastici. La marchesa abitava un’ala di un palazzo cadente che portava ancora i fregi dell’antico casato. I nuovi proprietari, in attesa che qualche pezzo grosso politico spingesse la pratica di un ambizioso progetto per costruirvi un palazzone, consentivano alla marchesa di abitarvi e ciò procurava ai nuovi padroni un alibi di gente caritatevole. La marchesa era sopravvissuta negli ultimi tempi industriandosi nella vendita di cianfrusaglie, procurandosele al mercato delle pulci o da qual che rigattiere. Ella poi, con aria commossa, come di chi si priva a malincuore di cose tenute care per lungo tempo, le rivendeva ai patiti di anticaglie, che restavano commossi ma soddisfatti, sicuri di aver acquistato a prezzi convenientissimi quei cimeli carichi di storia. Ad un commendatore che desiderava arricchire la sua villa di pezzi che odorassero di nobiltà vendette una raccolta di ceramiche imbottite di storie incredibili: uno zio della marchesa, grande viaggiatore, in Cina aveva conosciuto una principessa che, invaghitasi del nobile siculo, lo aveva caricato di doni, fra cui quelle preziose cineserie. Ma i suoi affari migliori li faceva vendendo vecchie foto che trovava dovunque per pochi spiccioli solleticando la vanità dei nuovi ricchi, desiderosi di farsi un albero genealogico, da mostrare a conoscenti invidiosi. Ma occorrevano antenati che nel secolo scorso già contassero. La marchesa era disponibile per ogni fantasiosa necessità, anche per le evenienze più bizzarre e imprevedibili. Così le foto di dame ingioiellate, cavalieri pettoruti, vecchi baffuti, fanciulli imbambolati, cacciatori fieri dei loro trofei, gene rali, marescialli carichi di medaglie, andavano ad assemblarsi secondo i capricci e le necessità dei nuovi parenti. Spesso in quest’opera sì richiedeva l’esperienza della marchesa. Dopo averle fatto giurare che mai avrebbe rivelato tali gelosi segreti, le veniva data carta bianca. Lei si sbizzarriva negli accoppiamenti più surreali. Tanto che, se i personaggi di quelle foto fossero stati in vita, l’avrebbero strozzata. Per finire, completava l’opera scrivendo i nomi degli antenati con la sua elegante e sciolta calligrafia. La marchesa si calava con tale trasporto in queste imprese, alla fine si sdraiava su di un sofà percorsa da forti tremolii, come in preda a un travolgente orgasmo. Ma negli ultimi tempi, con il boom edilizio e il denaro facile, era esplosa la mania dell’antico. Commercianti e antiquari fiutarono la miniera d’oro che si celava nella marchesa. In cambio di consistenti percentuali, la convinsero a collaborare con loro e ad occuparsi ufficialmente di iniziative benefiche.
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La marchesa di Acquachiara
Da quel momento, croste, quadri, mobili di nessun valore acquistarono paternità e lustro. «Questo ritratto di gentiluomo faceva parte degli antenati del casato Acquachiara; questo mobile è un cimelio di ciò che rimane degli arredi degli Acquachiara; questo trittico e questi candelabri provengono dalla cappella privata degli Acquachiara.» E le cifre sugli assegni si caricavano di zeri. Se mai qualcuno avesse avanzato dubbi sull’autenticità e sulla prove nienza, si mandava un autista dalla marchesa, che lamentandosi di avere pochissimo tempo perché impegnata, accettava l’invito per amore di giustizia. Entrava retta dal braccio del vecchio autista, sul volto una veletta scura. Stendeva una mano magra e ingioiellata. Dopo il baciamano, veniva accompagnata davanti a quegli oggetti, di cui per malasorte aveva dovuto disfarsi e che ora erano là, a ricordarle gli anni della sua infanzia e dell’agiatezza. Lacrime rigavano il suo volto, che asciugava fra sommessi singhiozzi. Senza aver pronunciato parola, aveva dissipato qualsiasi odore di dubbio. Gli acquirenti firmavano commossi i loro assegni. Quelle lacrime sancivano affari anche difficili. Qualcuno chiedeva la firma di autenticazione della marchesa, da poter esibire poi agli amici invidiosi e la marchesa con gesto generoso stendeva la sua chilometrica firma. In centinaia di ritratti riconosceva i suoi zii, sua madre, se stessa in una miriade di pose, come se tutta la sua infanzia fosse trascorsa davanti ai pittori. Gioielli, vestiti, cristalli, tappeti, mobili, persino carrozze e automobili erano usciti in quantità da casa Acquachiara… Al limite, alla sua età, poteva pure scappare qualche errore: era impossibile ricordare proprio tutto di quella immensa dimora… «Antiquari, critici, organizzatori d’aste, collezionisti! Volete dare certa paternità ad un pezzo antico, per piazzarlo nelle aste nazionali e internazionali? Siete ancora in tempo; la nobile firma della marchesa rimane ancora