Spiazza e irretisce spettacolo-metafora che dà voce a chi non è ascoltato.
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Due sole date per uno spettacolo che, nel bene e nel male, ha fatto molto parlare di sé: parliamo de “La Passione secondo Giovanni”, che, con la regia del visionario e talentuoso Pippo Delbono, ha debuttato al Teatro Massimo di Palermo giovedì 27 aprile alle 18.30, per essere poi replicato il giorno successivo, venerdì 29 aprile, alle 20.30. Si tratta di un nuovo allestimento, realizzato in coproduzione con il Teatro dell’Opera di Roma e il Teatro San Carlo di Napoli, della composizione originale per coro, voci soliste e orchestra del grande musicista e compositore Johann Sebastian Bach ispirata dai capitoli 18 e 19 del Vangelo di Giovanni e, in parte, da quello di Matteo, sulla morte e passione di Cristo e integrata da testi scritti del poeta B.H.Brockes, rimaneggiati, si dice, dallo stesso Bach.
L’opera venne eseguita per la prima volta nella sua versione originale in occasione del Venerdì Santo, il 7 Aprile 1724, nella Chiesa di San Tommaso, a Lipsia. Benché le opere di Bach legate a festività religiose siano considerate dai più come grandi capolavori (basti pensare, ad esempio, allo splendido Magnificat, composto in occasione del Santo Natale o , sempre in occasione del Venerdì Santo, alla Passione secondo Matteo, composta cinque soli anni dopo quella di Giovanni), la Passione secondo Giovanni non ebbe immediato successo: la critica, infatti, fu piuttosto severa nei confronti del compositore e della sua opera, che effettivamente si discostava non poco dai canoni della musica sacra tra fine Seicento e primi del Settecento. Non poteva d’altronde essere altrimenti data l’originalità della musica di Bach, incarnante una perfetta commistione tra elementi delle più disparate tendenze compositive, in particolare della musica tedesca e quella italiana, la prima parte integrante del suo stesso albero genealogico (appannaggio di una delle più celebri famiglie di compositori tedeschi, il cognome Bach veniva persino usato come sinonimo di musicista di Corte nella natìa Germania) e la seconda fatta propria tramite le numerose trascrizioni di spartiti di musicisti italiani, di Vivaldi in particolare. In quanto partiture particolarmente complesse, sia stilisticamente che tecnicamente, le sue opere non ebbero infatti immediata e vasta diffusione, come quelle di suoi contemporanei più fedeli alla tradizione.
Le reazioni ambigue del pubblico e della critica costituiscono il filo rosso che collega passato e presente e che unisce l’opera originale del grande Bach al suo moderno rimaneggiamento ad opera di Delbono, cui hanno preso parte, come direttore d’orchestra il maestro palermitano Ignazio Maria Schifani, Nathan Vale (l’evangelista), Ugo Guagliardo (Gesù),Marleen Mauch (soprano), Nils Wanderer (alto), Alessandro Luciano (tenore), Giorgio Caoduro (baritono), nonché il coro e il coro di voci bianche del Teatro Massimo. Sulla scena anche lo stesso Delbono, nei panni di una voce narrante accostata e spesso sovrapposta alle parti cantate, che hanno conferito una suggestiva drammaticità alla scena. L’opera racconta il susseguirsi degli eventi che, dalla scena dell’orto, conducono alla deposizione di Cristo dalla croce, per poi concludersi con una straziante preghiera del fedele, una sentita professione di fede.
La scenografia, curata da Renzo Milan, è scarna ed essenziale, costituita solo da un’impalcatura che fa da sfondo al palco, su cui si avvicendano gli attori e i cantanti. Tutto lo spettacolo è pervaso da un’atmosfera fortemente allegorica, che umanizza la figura di Cristo e contestualizza nei mali del presente la passione. In scena, oltre a Delbono, anche un gruppo di attori sordomuti, che con i gesti sembrano comunicare ciò che neanche le parole sono in grado di spiegare e due profughi, l’afghano Safi Zakria e l’ebreo ungherese Martino, che portano sul palco le gravi problematiche relative all’immigrazione: Gesù e i due giacciono in fin di vita sul palco, distesi sotto coperte isotermiche, il cui bagliore acceca lo spettatore, attonito e basito di fronte alla consapevolezza che ogni giorno, sulle nostre coste, la Passione si consuma, ancora e ancora, senza che vi si ponga rimedio. Altrettanto toccante è l’incursione sul palco di Bobò, che, sordomuto e analfabeta, ha trascorso quasi 50 anni in un manicomio ad Anversa: l’anziano si trascina con il suo bastone sul palco, gridando un messaggio all’apparenza incomprensibile ma che scuote l’animo di chi ascolta e stringe tra le mani un fiore bianco, segno di quella purezza e quella speranza che il mondo sembra ormai aver perso, ma che può nascere anche dalla più grande delle disperazioni.
L’intero spettacolo diviene una metafora, che umanizza la figura di Cristo e dà voce a chi non è ascoltato, una voce forte, prorompente, proposta allo spettatore sotto forma di urla strazianti, suoni forti e martellanti, come quello della frusta che sferza i suoi colpi contro le gradinate del traliccio. Una voce che può essere colta ed apprezzata, la cui comprensione è possibile solo attraverso un processo di riflessione e interiorizzazione delle tematiche proposte, ma che può anche impressionare negativamente chi ascolta: le reazioni del pubblico sono state contrastanti, a tratti forti tanto quanto le scene che si svolgevano sul palco, quasi l’intero teatro fosse divenuto un unico grande palcoscenico.
Il merito di Delbuono è senza dubbio quello di aver portato pura arte sul palco del Teatro Massimo: cos’è d’altra parte l’arte se non quel processo creativo che genera riflessione, emozioni forti e che, se correttamente razionalizzata, fa comprendere il significato intrinseco delle storie che racconta?
Alessia Girgenti